Multinazionali del dolore. Caso quattro: Nike

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La Nike, multinazionale americana che produce e distribuisce in tutto il mondo scarpe e palloni di calcio, sfrutta la manodopera a basso costo soprattutto nei paesi dell’Asia come la Cina, la Thailandia, l’Indonesia, la Corea del Sud, il Vietnam. Il salario medio giornaliero di un lavoratore è di 50 centesimi per circa 12 ore di lavoro e gli operai, spesso bambini, sono esposti perennemente alle malattie perché lavorano a stretto contatto con i vapori di colle, solventi e vernici. Le ribellioni e gli scioperi sono oppressi con torture e spesso uccisioni da parte delle polizie locali. Ed è tutto così assurdo se si pensa che il materiale per creare una scarpa Nike costa 4,7 $, la manodopera 1,3 $ e che al pubblico il prodotto viene venduto al prezzo di 125 $. Infine l’azienda spende circa 180 milioni di dollari l’anno in pubblicità. Michael Moore, regista di “The big One” sul tema degli enormi profitti delle multinazionali che chiudono le proprie fabbriche per aprire all’estero dove la manodopera costa pochissimo, incontra alla fine del film il boss della Nike Phillip Knight, il quale ammette con qualche remora, di essere in connivenza con il regime indonesiano per lo sfruttamento della manodopera infantile. “E’ quasi una forma di genocidio!”, dichiara Moore. E di fronte a Knight, che afferma che non chiuderà mai le aziende in Indonesia per aprirle in America, prosegue: “volevo che alla fine del film tu dicessi: “Mi dissocio da ciò che succede nell’America delle multinazionali, mi importa che gli americani abbiano un lavoro, mi importa che gli indonesiani abbiano uno stipendio decente e che i bambini non lavorino in quelle fabbriche. Sono un uomo con una coscienza e farò in modo da cambiare le cose”.

R.M.